Apparso nel IX sec. nel nord dell’India, lo Shivaismo kashmiriano è la più unitaria e monista delle sei principali scuole shivaite. In un panorama religioso dominato dal Buddismo e dallo Shaktismo tantrico, nasce e fiorisce la scuola shivaita kashmiriana che prende il nome dalla zona geografica di origine. La serenità che infonde questa paradisiaca regione, ha contribuito alla comparsa di un pensiero filosofico altrettanto quieto e incantevole.
I filosofi del Kashmir, a differenza di molti altri hanno rinunciato a discipline assiomatiche ed etiche “integraliste” incentivando pratiche efficaci e piacevoli denominate Shivayoga (ispirato al già noto Raja Yoga), pervase da uno stato di amore purissimo verso Dio e congiunte ad un sentimento di intima unione con il Tutto. La vita nella valle del Kashmir così piacevole, calma e priva delle numerose afflizioni cui erano sottoposti i popoli indiani a causa del clima e della siccità, ben si è riflessa nella tradizione shivaita, che non sollecita la pratica di rigorose austerità fisiche e mentali bensì suggerisce dei percorsi di meditazione spontanea e di graduale sublimazione delle emozioni e degli istinti grossolani. La tradizione shivaita afferma che Shiva stabilì 64 sistemi o filosofie. Dato che molte di queste andarono perse, Shiva chiese al saggio Durvasa di rinverdirne la conoscenza. Quest’ultimo diede alla luce tramite la forza mentale tre figli e li incaricò di tramandare le 3 filosofie: affidò a Tryambaka la filosofia monista, ad Amardaka quella dualista, e a Srikanta l'ideologia monista-dualista. Proprio dal primo dei tre, Tryambaka, ebbe origine lo Shivaismo del Kashmir. Si narra che lo stesso Shiva decise poi di risolvere le differenze tra le tre ramificazioni, allontando le influenze dualiste.
La letteratura shivaita kashmiriana si suddivide in tre branche:
- Agama shastra
- Spanda shastra
- Pratyabhijna shastra
AGAMA SHASTRA
A questa Shastra appartiene lo Shiva Sutra, chiave di volta di tutto lo Shivaismo, attribuito al saggio Vasugupta. Comprende in generale le opere considerate d’ispirazione divina.
SPANDA SHASTRA
Comprende lo Spanda Karika, opera sempre attribuita a Vasugupta o al suo discepolo Kallata (circa 850-900 d.C.). Quest’opera approfondisce i principi dello Shiva Sutra.
PRATYABHIJNA SHASTRA
Comprende lo Shiva Drishti, opera di Somanada (discepolo di Vasugupta) e il Pratyabhijna Sutra opera del suo successore Utpaladeva circa (900-950 d.C.) Lo Shivaismo del Kashmir ha il suo massimo esponente in Abhinavagupta (circa 950-1020 d.C.), autore di circa 40 opere la più nota delle quali, almeno per sentito dire, è il Tantraloka. La letteratura kashmiriana offre una comprensione profonda e minuziosa della psiche umana e la definizione del Kundalini-siddha-yoga utilizzato come mezzo per il risveglio del proprio sé. Questa metodologia, strettamente monastica, pone un accento sulla meditazione e sulla riflessione personale. La creazione dell’anima individuale viene definita tramite il termine “abhasa” ovvero “un bagliore di Shiva al di fuori di Se stesso”. Attraverso la sua Shakti (energia, vibrazione), Shiva realizza le azioni di creazione, mantenimento, riassorbimento, rivelazione e occultamento. Tra i mezzi utili per raggiungere la rivelazione del proprio Sé, lo Shivaismo del Kashmir contempla anche la conoscenza (jnana) e la devozione (bhakti). La pratica spirituale (sadhana) conduce l’aspirante alla comprensione del fatto che il sé individuale altri non è che Shiva, ovvero il Sé e Dio sono una e la stessa sostanza.
La tradizione kashmiriana, descrive tre tappe (upaya) che conducono l’aspirante alla realizzazione del proprio sé. Esse non si rivelano necessariamente sequenziali, in quanto il loro attraversamento dipende dal grado di evoluzione dell’adepto. La prima tappa è anavopaya nella quale l’aspirante purifica il proprio essere tramite il controllo della respirazione. La seconda è shaktopaya ovvero il mantenimento costante della coscienza su Shiva.
La terza è shambavopaya nella quale l’adepto o grazie alla sua volontà o tramite l’aiuto del suo maestro raggiunge lo stato di coscienza suprema. Oltre alle tre summenzionate, esiste una quarta via chiamata anupaya, la via “senza mezzi” nella quale il praticante non compie nessuna pratica e rimane focalizzato nel proprio essere, nel proprio sé. La realizzazione potrà arrivare tramite la grazia del proprio guru. Nonostante diversi maestri rinomati, l’isolamento del Kashmir e il dominio mussulmano hanno bloccato l’espansione di questa filosofia shivaita. Oggigiorno, i ricercatori stanno portando alla luce numerosi reperti molto utili alla comprensione del sistema. La tradizione parampara è stata rappresentata nel nostro secolo da Swami Lakshman Joo, scomparso negli anni 80. In seguito alla diaspora della popolazione del Kashmir, avvenuta a causa della guerra, questa filosofia può nuovamente essere conosciuta essendo promulgata in diverse zone dell’India dai seguaci ivi stabilitisi.
I filosofi del Kashmir, a differenza di molti altri hanno rinunciato a discipline assiomatiche ed etiche “integraliste” incentivando pratiche efficaci e piacevoli denominate Shivayoga (ispirato al già noto Raja Yoga), pervase da uno stato di amore purissimo verso Dio e congiunte ad un sentimento di intima unione con il Tutto. La vita nella valle del Kashmir così piacevole, calma e priva delle numerose afflizioni cui erano sottoposti i popoli indiani a causa del clima e della siccità, ben si è riflessa nella tradizione shivaita, che non sollecita la pratica di rigorose austerità fisiche e mentali bensì suggerisce dei percorsi di meditazione spontanea e di graduale sublimazione delle emozioni e degli istinti grossolani. La tradizione shivaita afferma che Shiva stabilì 64 sistemi o filosofie. Dato che molte di queste andarono perse, Shiva chiese al saggio Durvasa di rinverdirne la conoscenza. Quest’ultimo diede alla luce tramite la forza mentale tre figli e li incaricò di tramandare le 3 filosofie: affidò a Tryambaka la filosofia monista, ad Amardaka quella dualista, e a Srikanta l'ideologia monista-dualista. Proprio dal primo dei tre, Tryambaka, ebbe origine lo Shivaismo del Kashmir. Si narra che lo stesso Shiva decise poi di risolvere le differenze tra le tre ramificazioni, allontando le influenze dualiste.
La letteratura shivaita kashmiriana si suddivide in tre branche:
- Agama shastra
- Spanda shastra
- Pratyabhijna shastra
AGAMA SHASTRA
A questa Shastra appartiene lo Shiva Sutra, chiave di volta di tutto lo Shivaismo, attribuito al saggio Vasugupta. Comprende in generale le opere considerate d’ispirazione divina.
SPANDA SHASTRA
Comprende lo Spanda Karika, opera sempre attribuita a Vasugupta o al suo discepolo Kallata (circa 850-900 d.C.). Quest’opera approfondisce i principi dello Shiva Sutra.
PRATYABHIJNA SHASTRA
Comprende lo Shiva Drishti, opera di Somanada (discepolo di Vasugupta) e il Pratyabhijna Sutra opera del suo successore Utpaladeva circa (900-950 d.C.) Lo Shivaismo del Kashmir ha il suo massimo esponente in Abhinavagupta (circa 950-1020 d.C.), autore di circa 40 opere la più nota delle quali, almeno per sentito dire, è il Tantraloka. La letteratura kashmiriana offre una comprensione profonda e minuziosa della psiche umana e la definizione del Kundalini-siddha-yoga utilizzato come mezzo per il risveglio del proprio sé. Questa metodologia, strettamente monastica, pone un accento sulla meditazione e sulla riflessione personale. La creazione dell’anima individuale viene definita tramite il termine “abhasa” ovvero “un bagliore di Shiva al di fuori di Se stesso”. Attraverso la sua Shakti (energia, vibrazione), Shiva realizza le azioni di creazione, mantenimento, riassorbimento, rivelazione e occultamento. Tra i mezzi utili per raggiungere la rivelazione del proprio Sé, lo Shivaismo del Kashmir contempla anche la conoscenza (jnana) e la devozione (bhakti). La pratica spirituale (sadhana) conduce l’aspirante alla comprensione del fatto che il sé individuale altri non è che Shiva, ovvero il Sé e Dio sono una e la stessa sostanza.
La tradizione kashmiriana, descrive tre tappe (upaya) che conducono l’aspirante alla realizzazione del proprio sé. Esse non si rivelano necessariamente sequenziali, in quanto il loro attraversamento dipende dal grado di evoluzione dell’adepto. La prima tappa è anavopaya nella quale l’aspirante purifica il proprio essere tramite il controllo della respirazione. La seconda è shaktopaya ovvero il mantenimento costante della coscienza su Shiva.
La terza è shambavopaya nella quale l’adepto o grazie alla sua volontà o tramite l’aiuto del suo maestro raggiunge lo stato di coscienza suprema. Oltre alle tre summenzionate, esiste una quarta via chiamata anupaya, la via “senza mezzi” nella quale il praticante non compie nessuna pratica e rimane focalizzato nel proprio essere, nel proprio sé. La realizzazione potrà arrivare tramite la grazia del proprio guru. Nonostante diversi maestri rinomati, l’isolamento del Kashmir e il dominio mussulmano hanno bloccato l’espansione di questa filosofia shivaita. Oggigiorno, i ricercatori stanno portando alla luce numerosi reperti molto utili alla comprensione del sistema. La tradizione parampara è stata rappresentata nel nostro secolo da Swami Lakshman Joo, scomparso negli anni 80. In seguito alla diaspora della popolazione del Kashmir, avvenuta a causa della guerra, questa filosofia può nuovamente essere conosciuta essendo promulgata in diverse zone dell’India dai seguaci ivi stabilitisi.